Tra educatori e famiglie è noto che l’adolescenza rappresenti un periodo vulnerabile rispetto alla violenza, in cui è più probabile che si sperimentino sopraffazione e abusi. Già nel 2003 emergeva come una ragazza su 5 negli Stati Uniti sperimentasse violenza fisica o sessuale in appuntamenti con coetanei e circa il 10% degli adolescenti si fosse trovato coinvolto almeno una volta in appuntamenti legati alla violenza
Gli accadimenti contemporanei e la pandemia sembrano aver acuito il fenomeno in modo direttamente proporzionale alla stereotipizzazione da parte degli adulti che, nei ruoli di genitori o educatori, si trovano ai margini di dinamiche relazionali complesse, difficili da risignificare. Confusi da un riduzionismo che ne derubrica la portata e un allarmismo disfunzionale, si rischia infatti di agire senza poter uscire dal meccanismo della negazione, che porta, progressivamente, a veder scemare l’impegno e l’attenzione sul tema, man mano che l’eco della cronaca si spegne.
Da diverse ricerche sembra emergere come l’esposizione alla violenza costituisca un elemento disturbante rispetto alla capacità di riconoscere e distinguere situazioni relazionali positive e altre non salutari. Questo costituisce un elemento saturante rispetto alla possibilità di uscire dalla ripetizione e favorisce invece l’instaurarsi di specifici ruoli all’interno del gruppo di pari come rispetto agli adulti, portati a condannare o temere, senza poterle pensare, la rabbia e l’aggressività mostrate.

In particolare stanno emergendo fenomeni in cui gli adolescenti si danno appuntamento, anche usando la tecnologia, per affrontarsi, aggredendo un singolo, messo in minoranza, o attivando dinamiche di confronto tra gruppi. Spesso un singolo può agire come organizzatore del momento che pare configurarsi come un tentativo di pervenire ad una catarsi attraverso l’azione, come scarica dell’attivazione usando un comportamento violento ed aggressivo, senza doversi occupare delle ragioni della stessa. Si sta imponendo infatti, da qualche tempo, anche l’espressione anglofona “Drama Queen“ per indicare chi, tra le ragazze, cerchi, crei e orchestri questi momenti, agendo affinché si realizzino o si mantengano situazioni di tensioni in una cornice di grande sofferenza personale e relazionale.
Tra le conseguenze e, al tempo stesso, tra i fattori predisponenti, della violenza ci sono una bassa autostima, consumo di alcol e di sostanze, comportamenti autolesivi ed ideazione suicidaria. Si intrecciano numerosi livelli, legati al singolo, al suo sistema di relazioni più prossimo, a quello familiare e, ampliandosi, a quello della comunità e sociale.
Appaiono necessari quindi azioni che agiscano come prevenzione, intercettando le situazioni prima che si presentino nell’emergenza, promuovendo capacità di riconoscimento emotivo e agendo nelle comunità o nelle scuole, come interventi clinici e terapeutici rispetto all’urgenza. Ugualmente importante risulta essere l’azione di accoglienza, sostegno e rinforzo delle funzioni genitoriali, spesso indebolite e paralizzate in contesti in cui la violenza attraversa le relazioni. Quanto sembra emergere è la necessità di non ignorare i segnali, per quanto deboli e celati, che possono manifestarsi, cogliendoli, anche con l’aiuto di un professionista, come un linguaggio, per quanto concreto, attraverso cui la violenza, altrimenti indicibile, può essere detta.
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